
Aosta
Via Croix de Ville, 11 - Aosta
Domenica 1 maggio 2011
Culto Evangelico
Liturgia a cura di Oriana HENRIET
Predicazione a cura di Laura MONAJA
DIALOGHI CON PAOLO RICCA Ancora sullo «sbattezzo», tra cristiani | |
Malgrado questi importanti punti di accordo, resta tra le chiese battiste e quelle pedobattiste una divergenza di fondo, dovuta a un diverso modo di concepire e quindi di praticare il battesimo; esse danno risposte diverse alla domanda: Che cos’è il battesimo? | |
Credo che l’annullamento del battesimo, se annullamento si può chiamare, possa avvenire solo se il battesimo sia stato impartito in maniera impositiva o ingannevole: una cosa che credo possa difficilmente avvenire al giorno d’oggi, mentre sicuramente poteva avvenire, ed è successo, nel passato e mi vengono in mente degli esempi: la nonna cattolica che fa battezzare il nipotino all’insaputa, e contro la volontà dei genitori protestanti, o atei; o il famoso episodio ottocentesco del bambino ebreo Mortara, il cui battesimo assolutamente irregolare era stato considerato valido. Ma prescindendo da queste eccezioni, invece, che senso ha chiedere di annullare il battesimo da parte di una persona che non gli riconosce alcun valore? Anzi, proprio questa richiesta ne ribadisce l’importanza: chi si preoccuperebbe di annullare un gesto insignificante? Roberta Colonna Romano – Venezia MestreLa lettera sulla «sbattezzo», pubblicata su Riforma del 28 gennaio, scorso conteneva un paragrafo che, per ragioni di spazio, non ho potuto pubblicare. Lo faccio però adesso, perché il tema dello «sbattezzo» – e quello collegato del battesimo – merita di essere ripreso, dato che, come già s’è accennato la volta scorsa, riguarda da vicino anche le nostre chiese. Questo stesso giornale è il settimanale di tre gruppi di chiese che, sulla questione battesimale, hanno dottrine e prassi diverse. Ora, la nostra lettrice, nel brano pubblicato sopra, evoca i battesimi fraudolenti che furono praticati in passato (forse occasionalmente lo sono ancora oggi, in ambienti particolarmente bigotti) e ricorda il tristissimo e scandaloso caso Mortara accaduto nell’Ottocento: un bambino ebreo fu battezzato o fatto battezzare cattolico di nascosto da una donna di servizio, che così pensava di «salvarlo»; la Chiesa cattolica, con il papa Pio IX in testa, ha poi letteralmente sequestrato questo bambino considerandolo, in quanto battezzato, sua proprietà; lo ha quindi sottratto ai genitori con un atto di inaudita violenza, con l’argomento che il bambino, ormai battezzato cattolico, doveva essere educato nella religione cattolica, e questo i genitori ebrei non erano ovviamente in grado di farlo. Quello del papa fu un atto di pura barbarie religiosa, un vero delitto morale e spirituale. La nostra lettrice ritiene che, in questo caso e in altri analoghi, la persona battezzata da bambino possa legittimamente, da grande, «sbattezzarsi», cioè dichiarare nullo il battesimo ricevuto in quel modo fraudolento, avvenuto contro il volere dei genitori e della comunità di appartenenza. Ci sono però altre forme di «sbattezzo» (se così lo vogliamo chiamare) che ci riguardano da vicino e che meritano attenzione. Di una in particolare ci vogliamo ora occupare: quella di chi, battezzato da bambino, dopo aver fatto un percorso di fede, desidera concluderlo con un battesimo non più amministrato a sua insaputa e senza la sua volontà (come è quello ricevuto da bambino), ma con un battesimo scelto consapevolmente e accompagnato da una personale confessione di fede. Questo cristiano, allora, per così dire «si sbattezza», cioè dichiara nullo il battesimo ricevuto da bambino e chiede di essere battezzato come credente consapevole, confessando la fede. Per lui si tratta del primo battesimo, dato che considera quello ricevuto da bambino un non-battesimo. Ma per la Chiesa che lo ha battezzato e che considera valido il battesimo di un bambino, quel battesimo da adulto credente è visto come un secondo battesimo, e questo, dal suo punto di vista, contraddice l’unicità dell’evento del battesimo che tutte le chiese professano. È a questo punto che gli animi e le chiese si dividono. Come è noto, sulla questione battesimale, le chiese si dividono oggi in due categorie: quelle dette «pedobattiste», che praticano abitualmente, anche se non esclusivamente, il battesimo dei bambini, e quelle battiste, avventiste, dei Fratelli, pentecostali e altre ancora, che praticano esclusivamente il battesimo dei credenti, e considerano quello dei bambini un battesimo mancato, un battesimo che non c’è, e quindi non riconoscono come battezzati tutti coloro che lo sono stati da bambini (cioè la grande maggioranza dei cristiani, almeno di nome). Questo crea tra le chiese una divisione abbastanza seria, che esiste da quasi cinque secoli e che finora nessuno è riuscito a superare. Questa divisione esiste anche all’interno del piccolo mondo evangelico italiano, nel senso che le chiese valdesi, metodiste e luterane praticano, oltre che il battesimo dei credenti, anche il battesimo dei bambini, mentre le chiese battiste, avventiste, dei Fratelli, pentecostali e altre ancora praticano esclusivamente il battesimo dei credenti e non riconoscono come battezzati coloro che lo sono stati da bambini, siano essi cattolici, ortodossi o evangelici. Eppure sia le chiese di tradizione battista sia quelle di tradizione pedobattista concordano, a proposito del battesimo, su diversi punti importanti. [1] Tutte sono d’accordo nel ritenere che il battesimo è un «segno». Qualche chiesa parlerà di «segno efficace», ma pur sempre di «segno». Così lo definisce anche il Bem ( = Battesimo, Eucaristia, Ministero), importante documento ecumenico del 1982. Non è l’acqua che purifica, o che diventa acqua santa, dotata di poteri divini, come quello di cancellare il peccato(1). Tutte le chiese evangeliche sono d’accordo nel separare il battesimo in qualunque forma dalla questione del «peccato originale», che invece, secondo la dottrina cattolica, come si è appena detto, è cancellato dal battesimo. [2] Tutte le chiese sono d’accordo nel ritenere che il battesimo si compone di due parti, una umana compiuta dalla Chiesa (il battesimo d’acqua) e una divina compiuta da Dio (il battesimo di Spirito). Il battesimo cristiano è infatti «d’acqua e di Spirito». Nel libro degli Atti degli apostoli, che riflette l’esperienza della Chiesa dei primi decenni, ci sono racconti di battesimi in cui il battesimo d’acqua precede quello dello Spirito (Atti 8, 14-17), altri in cui il battesimo di Spirito precede quello d’acqua (Atti 10, 47-48), altri in cui i due battesimi sembrano coincidere (Atti 8, 38-39). Comunque, ci sono sempre entrambi. [3] Tutte le chiese sono d’accordo nel ritenere che il battesimo è un evento unico nella vita cristiana. Mentre la Cena del Signore viene celebrata spesso, all’origine – sembra – ogni volta che la Chiesa si riuniva per il culto, il battesimo non viene ripetuto. In quanto segno della nuova nascita, può accadere una sola volta: come la nascita, così anche la nuova nascita è un evento unico. Siccome però le chiese di tradizione battista considerano il battesimo dei bambini un battesimo non avvenuto, ecco che esse battezzano anche persone battezzate da bambini che per loro non sono battezzate, ma per le chiese che le hanno battezzate, lo sono. [4] Tutte le chiese, infine, sono d’accordo nell’affermare che alla base di ogni battesimo c’è una iniziativa di Dio: è Lui che «chiama per nome» (Isaia 43, 1), è Lui che cambia i cuori di pietra in cuori di carne (Ezechiele 36, 26), a Lui e a Lui solo spetta il primato in ogni cosa. Questo dato fondamentale si esprime, tra l’altro, nel fatto che, qualunque sia l’interpretazione che si dà del battesimo, quest’ultimo è sempre amministrato dalla Chiesa, attraverso una persona che la rappresenta. Nessuno può battezzarsi da sé. Malgrado questi importanti punti di accordo, resta tra le chiese battiste e quelle pedobattiste una divergenza di fondo, dovuta a un diverso modo di concepire e quindi di praticare il battesimo; esse danno risposte diverse alla domanda: Che cos’è il battesimo? Qual è la risposta delle chiese pedobattiste? A grandi linee è questa: il battesimo è il segno del «Sì» che Dio ha pronunciato su ogni essere umano nella morte e risurrezione di Gesù. Infatti «siamo stati battezzati nella sua morte» (Romani 6, 3), nell’anno 30 della nostra era, sul Golgotha. Il battesimo d’acqua è segno e annuncio di quel battesimo, che vale per tutti e per sempre. La fede non è costitutiva del battesimo. Non sei battezzato perché credi, ma perché Cristo è morto per te. Battezzare un bambino significa porre su di lui il segno che Cristo è morto e risorto anche per lui. Lutero definisce lapidariamente il battesimo come «Parola nell’acqua»: questa Parola è il «Sì» della grazia e della promessa di Dio. Qual è la risposta delle diverse chiese «battiste» sopra menzionate? A grandi linee è questa: fermo restando, anche nel battesimo, il primato dell’iniziativa di Dio, il battesimo presuppone la conversione dell’uomo, è il segno del «Sì» dell’uomo al «Sì» di Dio. La Confessione di fede dei battisti italiani, del 1990, afferma che il battesimo «è il primo atto di obbedienza del cristiano» (art. 9). Quindi prima diventi cristiano, poi sei battezzato. Senza la fede del battezzato non c’è battesimo, che è possibile solo quando c’è, da parte del battezzato, la confessione personale della fede. Queste due diverse risposte alla domanda: «Che cos’è il battesimo?» possono coesistere o devono per forza escludersi, come accade tuttora? A mio giudizio potrebbero, anzi dovrebbero, coesistere come due forme possibili del battesimo cristiano, ciascuna delle quali mette in luce un aspetto fondamentale del battesimo stesso e della vita cristiana. Perché questo possa accadere è indispensabile, come primo passo, che ciascuna, senza rinunciare a se stessa, faccia lo sforzo di riconoscere le motivazioni evangeliche dell’altra. (1) Qui la dottrina cattolica del battesimo è diversa. Il Catechismo della Chiesa cattolica, del 1992, afferma che «per mezzo del battesimo tutti i peccati sono rimessi, il peccato originale e tutti i peccati personali, come pure tutte le pene del peccato» (n. 1263). Questa dottrina è tradizionale nel cattolicesimo romano moderno; la sua prima formulazione a livello conciliare risale al Concilio di Firenze del 1439. Tratto dalla rubrica Dialoghi con Paolo Ricca del settimanale Riforma dell'11 febbraio 2011 si veda anche www.chiesavaldese.org in questo blog si veda: aostavaldese.blogspot.com nei Dialoghi con Paolo Ricca la lettera su: lo «sbattezzo» ha senso? lunedì 7 marzo 2011 | |
«Quando furono giunti al luogo detto "Il Teschio", vi crocifissero lui e due malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra» (Luca 23, 33) «Gli undici e quelli che erano con loro dicevano: "Il Signore è veramente risuscitato ed è apparso a Simone”» (Luca 24, 34) | |
Durante la quaresima ogni anno noi cristiani riflettiamo in particolare sulla passione del Signore e Salvatore Gesù Cristo: passione nel senso del patire e quindi delle sofferenze che egli affrontò specialmente a partire da quella sera dopo la sua ultima cena fino alla sua morte in croce, per amore nostro e la nostra redenzione. Pensando alla realtà della sofferenza, mi viene in mente quanto di solito dicono certe persone pie quando fanno questa dolorosa esperienza o la vedono in altri: affermano che le sofferenze sono una partecipazione nostra a quelle di Cristo e accettano di sopportarle e condividerle con lui, per amor suo, pensano che ciò sia meritorio e che sarà ricompensato da Dio. L’Evangelo invece dice il contrario di quest’idea: che è stato lui, giusto e innocente, a volere liberamente accettare di condividere le nostre, rendendosi così solidale con tutti i sofferenti. Questo a me sembra chiaramente mostrato nella scena del Golgota, dove Gesù è stato crocifisso in mezzo a quei due crocifissi, dove non sono stati loro ad accettare di partecipare ai suoi patimenti, ma lui a condividere i loro! Stando così le cose, non c’è da pensare a meriti che si acquisiscano col sopportare le varie tribolazioni della vita, ma c’è soltanto da ringraziare e lodare Dio che, per il suo amore misericordioso, in Cristo si è fatto Emmanuele, cioè "Dio con noi", pure nelle nostre afflizioni e nella nostra morte, per liberarcene pienamente. Ma come ce ne libera? Esattamente come ha liberato colui che ha fatto le nostre stesse esperienze angosciose fino a morire come noi. Infatti Dio lo ha liberato risuscitandolo a vita nuova, gloriosa e immortale! Perciò la risurrezione di Gesù Cristo, avvenuta "veramente" - come ne testimoniano coloro che ne sono stati resi così certi da affrontare persino il martirio per affermarla - è il grande pegno di Dio che ci assicura che quanto ha già fatto per Cristo lo farà immancabilmente anche per noi. Questa è la Parola che Dio ci rivolge in Cristo, una Parola "incarnata" nella sua persona, in tutta la sua vicenda umana e nella sua risurrezione. Davanti a questa Parola ci sono due atteggiamenti diversi, rappresentati da quei due uomini crocifissi: uno è quello dello scandalizzato e ribelle che inveisce contro Gesù: "Se tu sei il Cristo, salva te stesso e noi"; l’altro è quello umile, altrettanto crocifisso e sofferente quanto il primo, che riconosce le proprie colpe, non inveisce, ma si rimette alla misericordia di Cristo che rivela quella del Padre. A questo Gesù dice: "Io ti dico in verità che oggi tu sarai con me in paradiso". Credo che Gesù avrebbe detto queste parole anche all’altro, perché è morto in croce per salvare pure lui. La sola differenza è che costui, pur essendo oggetto della misericordia e del perdono di Dio in Cristo quanto l’altro, non credendolo, muore disperato; mentre l’altro muore nella stupenda consolazione della fede e della speranza. A quale delle due esperienze vorremmo che corrispondesse la nostra in vita e davanti alla morte? Dipende solo da come effettivamente vediamo, valutiamo e accogliamo il fatto della croce e della risurrezione di Cristo in relazione con i guai nostri e degli altri esseri umani. tratto da: www.chiesavaldese.org | |
Dove stavano andando? Si trattava di ebrei che salivano a Gerusalemme in pellegrinaggio per partecipare alle cerimonie nel tempio, dove si svolgevano ancora i sacrifici prescritti dalla Legge (il tempio sarà distrutto una quarantina d’anni più tardi dai romani), ma soprattutto per celebravi la Pasqua. Era , ed è tuttora, una delle grandi feste della religione ebraica che ricorda l’uscita dall’Egitto del popolo di Israele al tempo di Mosè; non era una cerimonia pubblica ma famigliare, si celebrava in casa presieduta dal padre di famiglia, ma vivere quella festa pasquale a Gerusalemme assumeva significato particolare. Analogamente si può dire che trascorrere i giorni della settimana santa a Roma, per un cattolico al giorno d’oggi, pur non aggiungendo niente alla fede, è certo esperienza significativa. Gesù ed un gruppo dei suoi discepoli sale dunque a Gerusalemme insieme a molti altri pellegrini per questa circostanza, si trattiene nella città fino al giovedì, quando verrà arrestato per essere crocifisso il giorno seguente. L’episodio delle palme si colloca proprio durante questa marcia del pellegrini verso la città santa. Non va dimenticato che tutto ciò che riguarda la vita, le parole, i miracoli di Gesù, e cioè gli avvenimenti che accompagnano la sua esistenza, è narrato dagli evangelisti molto tempo dopo la sua morte e la sua risurrezione. Sono ricordi rivissuti alla luce di quello che è accaduto successivamente; quel giorno i discepoli non conoscevano quello che noi conosciamo, neppure sappiamo cosa pensassero, probabilmente che Gesù sarebbe stato accolto dai sacerdoti e avrebbe ricevuto una investitura ufficiale come maestro della legge, profeta. Secondo la tradizione il corteo dei pellegrini canta dei salmi, ed esprime la sua lode appunto agitando rami di palme, simbolo della gloria, della lode. Le parole «Benedetto colui che viene nel nome del Signore», come «Osanna nei luoghi altissimi» sono appunto parole di questi salmi, che cantano tutti, anche i discepoli. Sono parole che annunziano la venuta del Cristo, del salvatore atteso messaggero del regno di Dio ma nessuno sa che è presente nel corteo, che Gesù è Colui che viene nel nome del Dio. Neppure i discepoli sono pienamente consapevoli di questo fatto, e solo a posteriori, dopo la risurrezione, ricordando quella giornata si rendono conto che si erano cantate le lodi di Gesù. L’episodio letto oggi ha un messaggio molto chiaro: Gesù è il Salvatore che realizza le profezie; ma allora non era così, cantando i salmi antichi la gente pensava di esprimere la sua fede tradizionale, non era consapevole del fatto che gli stava rendendo omaggio. Chissà quante volte nella vita abbiamo anche noi camminato accanto a Dio, o meglio con Dio accanto a noi (perché letto nell’ottica cristiana Gesù è la presenza di Dio) e non ce ne siamo accorti e abbiamo parlato di lui senza esserne consapevoli. Il credente è quello che sa riconoscere la presenza di Dio nella vita ma Dio non è presente solo per i credenti. tratto da: www.chiesavaldese.org | |
DIALOGHI CON PAOLO RICCA | |
Credenti e non credenti: chi sono i migliori? | |
Alla domanda: «Il cristianesimo di speciale che cosa può offrire?» Hans Küng ha risposto così: «Molto. Naturalmente va capito che anche nelle altre religioni si trovano tanti valori, e che una visione etica e spirituale si nutre anche dell’apporto che viene dagli agnostici, dagli scettici, dagli atei. Insomma, il cristianesimo non può pretendere di cambiare da solo il mondo». Per Sergio Quinzio si può anche dire che «il credente ha bisogno dell’incredulo, in assenza del quale, com’è troppe volte accaduto, la sua fede si trasforma in un tranquillo e non di rado ottuso sistema di certezze». E Heidegger ha scritto: «La fede che non si espone costantemente alla possibilità dell’incredulità, non è neppure una fede». Contrariamente a queste affermazioni, la fede cristiana ufficiale continua a presentarsi come lo schieramento di coloro che hanno una risposta pronta per ogni domanda, ancora prima che cominci il dialogo, per cui oggi, nel tempo in cui sarebbe sommamente utile, manca un vero dialogo con chi non crede o non si pronuncia su Dio. Non solo, ma i cosiddetti «senza Dio», cioè gli atei e gli agnostici, vengono da più parti dipinti a tinte scure, sostenendo che non possono, per principio, predicare e praticare nulla di veramente buono, e che la loro etica è inevitabilmente di qualità inferiore a quella dei credenti. E si conclude affermando che occorre diffidare di loro e contrastare le loro istanze laiche nella società civile. I fatti però smentiscono questa visione delle cose. Fede in Dio e moralità non vanno necessariamente di pari passo e non basta essere credenti per essere persone migliori, spiritualmente e moralmente. Magari fosse così! Staremmo certo tutti meglio, vista l’altissima percentuale di credenti nel mondo (ben i cinque sesti della popolazione). Purtroppo dobbiamo constatare che la Chiesa non ha migliorato gran che il mondo in cui pure per tanti secoli ha svolto una funzione egemone e che anche nel nostro tempo i cristiani non eccellono in virtù come sarebbe lecito aspettarsi. Michele Turrisi – Latisana (Ud)Le domande (implicite) in questa lettera sono due. La prima riguarda il dialogo tra fede e incredulità; la seconda riguarda la moralità dei credenti rispetto a quella dei non credenti: se sia migliore oppure no. Sono due domande alle quali non è facile rispondere, ma sono importanti, ed è bene affrontarle. Il nostro lettore osserva, giustamente, che in fondo un vero dialogo tra fede e incredulità non c’è, o è molto raro, anche perché la fede ritiene, in generale (ci sono eccezioni, ma sono, appunto, eccezioni), di «avere una risposta pronta per ogni domanda», prima ancora che questa venga formulata. Così può accadere che la fede, o la teologia, o la Chiesa rispondano a domande immaginarie che nessuno pone e non rispondano alle domande vere che invece sono poste e restano inevase. Va però detto che il dialogo tra fede e incredulità non è facile per almeno due motivi. Il primo è che l’incredulità ha molte facce e ciascuna di queste esige un dialogo diverso. C’è, come è noto, una faccia religiosa dell’incredulità, contro cui Gesù ha molto combattuto: la chiama «ipocrisia». C’è un’altra faccia dell’incredulità, che è quella del Grande Inquisitore, che rimprovera Gesù per non aver ceduto alle tre proposte dello «Spirito intelligente del deserto» (le cosiddette «tentazioni») e aver così creato una religione fallimentare, che la Chiesa ha poi opportunamente corretto, mettendo in pratica proprio quelle tre proposte: dialogare con questo tipo di incredulità significa dialogare, se così posso dire, con il diavolo. C’è poi un’incredulità di altra natura, molto vicina alla fede, quasi la sua ombra: dialogare con questa forma di incredulità significa, per il credente, dialogare con se stesso e con Dio. Ma c’è naturalmente anche l’incredulità nel senso abituale del termine: la negazione pura e semplice di Dio, molto frequente nel nostro tempo come in tutta la modernità, quasi un suo distintivo. Una recente testimonianza di pochi giorni fa l’ha resa un eminente scienziato – un fisico di fama mondiale, prossimo candidato, si dice, al premio Nobel – il quale ha dichiarato con molta tranquillità: «Per me Dio non è neppure un’ipotesi». È chiaro che se Dio non è neppure un’ipotesi, il dialogo con la fede non è facile. Certo, si potrebbe cominciare a chiedere a questo interlocutore perché, per lui, Dio non è neppure un’ipotesi. Ma l’impressione è che il dialogo, più che difficile, sia indesiderato. Come se fosse una perdita di tempo. C’è però una seconda ragione della difficoltà del dialogo tra fede e incredulità: è che la storia dei loro rapporti è stata finora una storia abbastanza infelice. Durante molti secoli infatti la fede, o meglio la Chiesa che in quel momento storico le dava corpo, ha represso duramente l’incredulità o l’ateismo, punendolo anche con la pena capitale. Ancora nel Cinquecento la negazione della Trinità era considerata una forma di ateismo e perseguita con la morte o l’esilio. La fede non tollerava l’ateismo. Persino John Locke, nella sua celebre e, per quel tempo, e per molti aspetti anche per il nostro, eccellente Lettera sulla tolleranza (1689) negava agli atei (e ai cattolici) il diritto di far parte della comunità civile. Quando poi, a partire dal Rinascimento, ma soprattutto dal Seicento in avanti, la cultura si è emancipata dalla Chiesa e dalla visione religiosa del mondo, essa si è in vari modi pronunciata negativamente sulla fede identificandola con la superstizione, e ha interpretato la religione o come fase infantile nella storia dell’umanità, che l’«uomo adulto» non può fare altro che abbandonare oppure come una forza alienante che nella società produce strutture e mentalità conservatrici per non dire reazionarie, e negli individui genera illusioni e inibizioni che ostacolano il libero sviluppo della persona. Così da un lato la fede mantiene il suo pregiudizio negativo nei confronti dell’ateismo e dell’agnosticismo giudicandoli nocivi per l’uomo, e dall’altro l’incredulità mantiene il suo giudizio negativo sulla religione giudicandola una forma di infantilismo culturale. Parafrasando una parola evangelica potremmo dire che il credente si chiede: «Può forse venir qualcosa di buono dall’ateismo?» (Giovanni 1, 46), e l’ateo si chiede: «Può forse venir qualcosa di buono dalla religione?». In queste condizioni il dialogo è effettivamente difficile. Ma non è impossibile. Per avviarlo in modo costruttivo occorre ovviamente, in primo luogo, abbandonare ogni presunzione di superiorità della fede sull’incredulità (senza peraltro cadere nel complesso opposto di inferiorità della prima nei confronti della seconda, quasi che la fede fosse una debolezza o menomazione dello spirito). In secondo luogo occorre superare l’idea che associa e quasi imprigiona Dio nello spazio religioso del sacro, mentre Dio è aldilà della polarità sacro-profano, quindi è libero e presente tanto nella dimensione laica della vita, personale e collettiva, quanto in quella religiosa, e forse più nella prima che nella seconda. In terzo luogo è indispensabile che fede e incredulità si prendano reciprocamente molto sul serio, cercando ciascuna anzitutto di capire le ragioni dell’altra. Così ha fatto Dietrich Bonhoeffer nelle sue Lettere dal carcere, nel suo programma (appena abbozzato) di «cristianesimo non religioso», e nella sua poesia «Cristiani e pagani». In Italia oggi, tra i cristiani, c’è mons. Gianfranco Ravasi che cerca di avviare questo dialogo. È significativo che un suo volume intitolato Preghiere (Mondadori 2000) rechi come sottotitolo «L’ateo e il credente davanti a Dio», e si apra con un capitolo dedicato «Al Dio ignoto»: la preghiera dell’ateo. Leggendolo ci si accorge subito che Ravasi non si propone di addomesticare l’ateo inducendolo a pregare, ma vuole semplicemente ascoltare, prima di ogni altra, la sua voce, talvolta più autentica di quella di credenti che a Dio non sanno dire altro che pie banalità. A riprova Ravasi cita in apertura il grande poeta tragico greco Eschilo: «Io grido in alto le mie infinite sofferenze: dal profondo dell’ombra chi mi ascolterà?». La risposta al secondo interrogativo può essere molto breve per il semplice motivo che non la posso dare. Solo Dio conosce i cuori e solo lui sa dove c’è moralità e dove invece c’è apparenza di moralità. E comunque è sempre antipatico redigere classifiche, soprattutto di questo genere. Comunque non sembra, in generale, che ci sia molta più moralità nella Chiesa che fuori – lo dico a nostra vergogna, di noi che osiamo chiamarci cristiani. Una cosa è certa, l’ha detta Gesù: «A chi molto è stato dato, molto sarà ridomandato, e a chi molto è stato affidato, tanto più si richiederà» (Luca 12, 48): Ai cristiani è stato indubbiamente dato e affidato molto. Perciò l’apostolo Paolo li esorta a dedicarsi alla loro salvezza «con timore e tremore» (Filippesi 2, 12). Tratto dalla rubrica: Dialoghi con Paolo Ricca del settimanale Riforma del 14 gennaio 2011 si veda anche: www.chiesavaldese.org | |