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sabato 30 luglio 2011

Cristo è Risorto vittoria della vita sulla morte

                             DIALOGHI CON PAOLO RICCA




Dove vivono i morti – se vivono?

Anni fa ho assistito a un funerale in una nostra chiesa evangelica e il sermone del pastore era centrato su questo messaggio: il fratello che è deceduto, oggi è con il Signore il quale lo accoglie a sé perché premia la fatica delle sue mani. A conclusione, ecco le parole di un inno: «Oh, beati su nel ciel, quei che muoion nel Signor! Oltre il mesto oscuro vel, v’è per essi un nuovo albor».




Sono rimasto perplesso ascoltando questa esortazione e mi sono posto le domande che vorrei condividere con la rubrica «Dialoghi». Veramente chi muore «oggi» è «oggi» con il Signore? Vi è questa presenza temporale con il Signore? Qual è la sorte del cristiano di fronte alla sua morte? Essere con il Signore perché si è operato con fedeltà o essere in attesa della risurrezione dei morti?
Giovanni Anziani – Campobasso



Credo che anche i lettori del nostro settimanale che abitualmente non leggono questa rubrica, oppure la leggono solo saltuariamente, questa volta non resisteranno alla curiosità di vedere come si possa rispondere alla domanda: «Dove vivono i morti – se vivono?». Dico che non resisteranno perché è una domanda che ci riguarda tutti da vicino per due motivi: il primo è che tutti, prima o poi, abbiamo fatto o stiamo facendo o faremo l’esperienza della morte, non della nostra che non possiamo fare, perché la morte cancella anche l’esperienza della morte, ma della morte di altri e, specialmente se sono parenti o amici, conosciamo il dolore che provoca e le domande che suscita; il secondo motivo, fin troppo ovvio, è che un giorno, vicino o lontano, moriremo anche noi, e non è certo una curiosità frivola chiedersi dove andremo a finire, se, dopo l’avventura in questo mondo, andremo da qualche parte oltre che in una tomba o in un’urna o chissà dove, «leggeri nel vento», come dice Davide Maria Turoldo in uno dei suoi Canti ultimi (Garzanti 1992, 1a ediz. 1991). Desidero anzi, iniziando questa risposta, riprodurlo per intero, anche per rendere omaggio a questo caro amico, grande cantore della fede e intrepido cristiano (era un frate servita) anche nel modo di affrontare, dopo lunga e tormentata agonia, la sua morte: non trasfigurandola, cioè non facendo finta di non vedere l’ombra del Nulla che l’accompagna («la morte è la vendetta del Nulla»), e al tempo stesso confessando e interrogando il Tu divino, compagno della sua vita e della sua morte. Ecco il canto intitolato «E quando avrò»:
Quando avrò dalla mia cella
salutato gli amici e il sole
e si alzerà la notte,
finalmente
saldato il conto,
campane
suonate a distesa:
la porta è da tempo
segnata dal sangue
pronte le erbe amare
e il pane azzimo:
allora andremo
leggeri nel vento.



Come Israele, liberato dalle catene della schiavitù, poté partire verso la terra della libertà, così noi, liberati da Cristo dalle catene della morte, potremo andare «leggeri nel vento» – verso dove? Ecco la domanda del nostro lettore, alla quale ora dobbiamo rispondere. Prescindo qui dalle risposte che sono state date e si danno in altre religioni o visioni laiche del mondo o della vita, diverse da quella cristiana. La cosa sarebbe di grande interesse, ma non ho lo spazio per farlo. Limitiamoci quindi al cristianesimo che ha, nel cuore del suo Credo, la fede nella risurrezione di Cristo («il terzo dì risuscitò») e dei corpi («credo ... la risurrezione dei corpi»; i simboli cristiani più antichi dicono «della carne»!), e che nel corso della sua (ormai) lunga storia ha elaborato tre diverse risposte alla domanda del nostro lettore, che sono, a grandi linee, queste.

1. La prima è quella del purgatorio, una dottrina sviluppatasi solo a partire dal XII secolo, che ipotizza l’esistenza di un «luogo» (non necessariamente fisico in una ipotetica «geografia dell’aldilà») e di un «tempo» misurabile (con un inizio e una fine, quindi una durata), nei quali l’anima si purifica, attraverso vari tipi di pene (quella maggiore è la privazione della visione di Dio), e viene così resa idonea a entrare nel «paradiso», cioè nella presenza e comunione di Dio. Secondo questa dottrina, quando una persona muore, anche se è credente, non accede immediatamente al mondo di Dio, ma deve passare per il purgatorio, perché nessuno in questa vita è così perfetto da non avere qualche pena da espiare. Ora però la dottrina del purgatorio non ha alcuna base biblica, è anzi contraddetta da molte affermazioni della Scrittura ed è perciò giustamente rifiutata sia dalle chiese della Riforma, sia dalle chiese ortodosse, e lo era già stata dai Valdesi medievali. Lutero definisce il purgatorio «una pura fantasmagoria del diavolo» e Calvino «una terribile bestemmia contro Cristo», perché trasmette il messaggio che il sacrificio della croce non è sufficiente a cancellare tutte le colpe e tutte le pene, il che è l’esatto contrario della fede cristiana. Negare il purgatorio non significa però dimenticare i morti. Al contrario li dobbiamo ricordare, non però nella tomba o nel purgatorio, ma in Cristo.

2. La seconda risposta è quella del sonno in Cristo, che, tra gli altri, anche Lutero ha fatto propria. Secondo questa concezione, quando si muore si entra in una condizione analoga a quella di un sonno profondo, senza sogni, in cui si perde la coscienza del tempo e dello spazio, e tutto succede «in un batter d’occhio» (I Corinzi 15, 52). Scrive Lutero: «Dormiremo fino a quando Cristo arriverà e busserà alla nostra tomba: "Dottor Martino, alzati!". E subito mi alzerò e vivrò insieme a lui nella gioia eterna». Quando dura il «sonno»? Può durare secoli e millenni, ma sembrerà sempre un attimo, perché nel sonno non ci accorgiamo del passare del tempo. Lutero prende alla lettera certe espressioni del Nuovo Testamento che parlano di coloro che «dormono in Cristo» (I Corinzi 15, 18.20; I Tessalonicesi 4, 13). Alla luce di questa concezione la risposta alla domanda del nostro lettore è: i morti «dormono in Cristo» e saranno svegliati all’ultimo giorno. Qui però ci sono due problemi. Il primo è che per molti interpreti l’espressione «dormire in Cristo» è un eufemismo (in uso nell’antichità) per dire «essere morti», non va quindi presa alla lettera, come invece fa Lutero. Il secondo è sapere se tutti i morti «dormono in Cristo», o solo i credenti. Ciò nondimeno questa concezione ha un grande pregio: mette in luce il fatto che nel Cristo risorto non c’è più morte, ma solo vita e vita eterna. E quindi in lui si può solo «dormire», ma non perire.

3. La terza risposta si muove nella scia della precedente ed è quella che si ricava da tante affermazioni del Nuovo Testamento, a cominciare da questa bellissima di Gesù: «per lui [Dio] vivono tutti», anche quelli – diremmo – che per noi sono morti. E qui sono importanti sia il presente «vivono» (non «vivranno» in un futuro indeterminato, ma «vivono» adesso, in quella che potremmo chiamare l’istantanea dell’eternità di Dio), sia il «tutti», davvero impressionante per noi sempre inclini a distinguere, classificare, separare gli uni dagli altri. Potrei citare tanti altri passi che tutti quelli che leggono la Bibbia conoscono a memoria, soprattutto di Giovanni (dove a esempio Gesù dice: «Chiunque vive e crede in me non morrà mai» – 11, 26) e di Paolo («né vita né morte ... potranno separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù» – Romani 8, 38), ma non è necessario. L’idea di fondo del Nuovo Testamento è che la morte non ci toglie lo Spirito Santo e non ci separa da Cristo, nel quale, come ho già detto, non c’è morte, ma vita. In questo senso il «dormire in Cristo» può essere qualcosa di più che una semplice metafora, nel senso cioè che Cristo, nella potenza della sua risurrezione, trasforma la nostra morte in sonno. E comunque, la certezza cristiana fondamentale è che, come dice il Catechismo di Heidelberg, «apparteniamo a Cristo, con colpo e con l’anima, in vita e in morte». Sì, anche in morte. Questo «essere in Cristo», appartenergli in vita e in morte, non è ancora la risurrezione dai morti che avverrà alla fine (fino ad allora «non è ancora reso manifesto ciò che saremo» I Giovanni 3, 2), ma è una comunione reale con il Risorto che spiega perché Gesù abbia potuto dire al ladrone: «Oggi tu sarai meco in paradiso» (Luca 23, 43). Non è ovviamente l’oggi del nostro calendario – oggi che domani diventerà ieri –, è l’oggi eterno di Dio, il tempo senza tramonto aldilà del nostro tempo che passa.

Che dire in conclusione? Dirò che in questo campo occorre sobrietà, perché qui più che altrove conosciamo «in parte, non ancora appieno» (I Corinzi 13, 12), e molte cose ora nascoste devono ancora essere svelate, ma occorre anche quella che il Nuovo Testamento chiama parresìa, cioè la libertà di dire pubblicamente che noi crediamo in Cristo risorto, e quindi nella vittoria di Dio sulla morte e nella risurrezione dei morti. Si può allora dire di una persona deceduta, come disse il pastore citato nella lettera, che essa «è oggi con il Signore»? Sì, si può dire, ma – per favore – non perché Dio «premia le fatiche delle sue mani» (come disse, ahimé, il pastore), ma solo perché Cristo è risuscitato anche per lei.


Tratto dalla rubrica Dialoghi con Paolo Ricca del settimanale Riforma 
del 9 aprile 2010

si veda anche il sito: www.chiesavaldese.org