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sabato 8 dicembre 2012

TEMA: LA PREGHIERA

DIALOGHI CON PAOLO RICCA


«Prega per me!» – «sì, pregherò per te!» - o no?

Qualche tempo fa una signora mi ha chiesto di pregare per lei. È lecito pregare per qualcuno, per una grazia o una guarigione? Al mondo ci sono tante persone che soffrono e tutte sono figli e figlie di Dio. Perché il Signore dovrebbe privilegiare coloro che pregano?

Lasciata da parte la «risoluzione» di una situazione, si può chiedere al Signore di aiutarci a sostenere la via per la quale camminiamo, ma questo lascia sullo sfondo il pensiero che Dio sia «indifferente» o addirittura «incapace» di intervenire.
Penso a Gesù che nel deserto prega e digiuna, chiedendo ai discepoli di non lasciarlo solo. È un’immagine che comprendo meglio. Ora che noi sappiamo che Gesù è davvero risorto ed è vivente, è possibile confidare a Lui i nostri pensieri? Durante il culto sento spesso parlare «di» Gesù, ma non sento mai parlare «a» Gesù.
Esterina Nicoletti

Il tema della preghiera è vastissimo, come quello della fede e di Dio stesso. Se ne potrebbe e dovrebbe parlare a lungo, perché la preghiera, sia come atto (l’azione di pregare, nelle tante forme possibili) sia come atteggiamento (cioè come modo di essere nel mondo e tra gli uomini), è centrale nella vita di fede, secondo la bella parola citata da Kierkegaard, anche se non è sua: «La preghiera è figlia della fede, ma la figlia deve nutrire la madre». Le domande però che la nostra lettrice pone non riguardano la preghiera in generale, ma alcuni suoi aspetti particolari: sono domande puntuali che richiedono risposte puntuali. Le domande, mi pare, sono tre. La prima è se sia lecito pregare per qualcuno in particolare, su sua richiesta, per ottenere qualche grazia, privilegiando così quella persona rispetto ad altri che soffrono altrettanto e forse di più. La seconda è se chiedendo a Dio di intervenire in una situazione di difficoltà non si ammetta implicitamente che Dio, di sua iniziativa, non interverrebbe, dimostrandosi indifferente o addirittura incapace di intervenire. La terza è se sia possibile rivolgere i nostri pensieri e le nostre preghiere direttamente a Gesù (anziché a Dio attraverso Gesù).


I. Alla prima domanda rispondo incondizionatamente «Sì!». Non solo è lecito «pregare per qualcuno, per una grazia o una guarigione», ma è comandato. Le promesse al riguardo sono chiare: «Getta il suo peso sull’Eterno, ed egli ti sosterrà» (Salmo 55, 22) e «Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo» (Galati 6, 2). L’intercessione è proprio questo: portare i pesi gli uni degli altri, qualunque possa essere il peso: una malattia o un’altra difficoltà o avversità della vita. Abbiamo nella Bibbia esempi luminosi di preghiere per gli altri, a cominciare da quella stupenda di Abramo a favore di Sodoma, affinché Dio, punendo la città, non faccia perire il giusto con l’empio (Genesi 18, 22-33). Ma anche Mosé ha più volte interceduto per il popolo d’Israele, specialmente dopo il terribile peccato d’idolatria con il vitello d’oro (Esodo 32, 30-35). Gli esempi sono innumerevoli, sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento. Per chi crede, non c’è nulla di più normale che pregare, e specialmente pregare per gli altri. «Pregate gli uni per gli altri, affinché siate guariti» (Giacomo 5, 16) e l’apostolo Paolo scrive ai Filippesi: «In ogni mia preghiera, prego per voi tutti con gioia» (1, 4), e ai cristiani di Tessalonica chiede: «Fratelli, pregate per noi» (5, 25). La preghiera è il primo e principale linguaggio della fede in Dio e dell’amore del prossimo: della fede in Dio perché nella preghiera si parla a Dio come risposta alla parola che egli ci ha rivolto; dell’amore del prossimo perché pregare per gli altri è un modo di amarli – forse il maggiore, tanto più quando ce lo chiedono. Ma anche quando non ce lo chiedono, ce lo chiede Gesù, per il quale la preghiera per gli altri è così fondamentale che da comandare ai suoi discepoli di pregare anche per coloro che li perseguitano, cioè per i loro peggiori nemici (Matteo 5, 44). Ora la nostra lettrice si chiede: pregando per qualcuno, ad esempio per un malato, su sua richiesta, e domandando a Dio di «ricordarsi di lui», come dicono tanti Salmi, e di guarirlo nel corpo e renderlo saldo nell’anima, non faccio forse di lui un privilegiato, rispetto ad altri malati, per i quali – poniamo – nessuno prega? La mia risposta è: «No», in nessun modo! La persona che ci ha chiesto di pregare per lei non è un privilegiato, ma una creatura in difficoltà che lancia un Sos invocando aiuto. Noi pregheremo per quella persona, non però per non pregare per altri, ma al contrario includendoli espressamente nella nostra preghiera, che non sarà esclusiva, ma inclusiva di tutte le persone che si trovano nella stessa difficoltà – persone di cui non conosciamo il nome, che però è certamente conosciuto da Dio. Ecco una bella iniziativa: pregare per coloro per i quali nessuno prega. Sappiamo infatti che Dio ama di più coloro che sono amati di meno.


II. La seconda domanda è: se chiedo a Dio di intervenire in una situazione difficile (malattia o altro) o in qualunque altra situazione della vita, non affermo forse, almeno implicitamente, che Dio ha bisogno di essere, diciamo così, sollecitato, attraverso la mia preghiera, a intervenire là dove, forse, di sua iniziativa, non sarebbe intervenuto, o perché disinteressato («indifferente» dice la lettera) o impossibilitato («incapace»)? In altre parole: Dio agisce nella nostra vita solo se e in quanto glie lo chiediamo, oppure agisce indipendentemente da qualunque preghiera? La nostra preghiera è davvero così potente da destare e mettere in movimento o addirittura modificare la volontà di Dio?
E quindi, in fin dei conti, che senso ha pregare? C’è qualche possibilità – almeno una – di ottenere ciò che si chiede, o invece serve solo come esercizio di pietà, come atto di fiducia e abbandono in Dio, ma non può in alcun modo condizionare la volontà di Dio ? Come si vede sono domande molto impegnative, alle quali rispondo così.

[a] L’idea che la nostra preghiera possa rivelare una «indifferenza» o passività, o addirittura una «incapacità» di Dio è del tutto estranea all’orizzonte della fede cristiana. La preghiera infatti non nasce principalmente del bisogno umano (che pure c’è), ma dalla promessa divina (che è la vera sorgente della preghiera. Non è la preghiera che mette in movimento la volontà di Dio, ma è la promessa di Dio che mette in movimento la preghiera. È perché Dio ha promesso di essere il nostro Dio – cioè il Dio per noi, oltre che con noi e persino in noi – che gli rivolgiamo con fiducia le nostre preghiere. È perché Gesù ha detto: «Tutte le cose che domanderete in preghiera, se avete fede, le otterrete» (Matteo 21, 22), e ancora: «Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate, e vi sarà aperto» (Luca 11, 9), che noi, fidandoci di queste parole, chiediamo, cerchiamo e bussiamo. È la promessa di Dio che ci rende audaci, e ci fa chiedere a Dio quello che Dio promette. La nostra preghiera quindi non rivela affatto un Dio indifferente, ma, al contrario, un Dio promettente, la cui promessa anticipa e autorizza ogni nostra richiesta.

[b] La preghiera dell’uomo può modificare la volontà divina? Sì, lo può. Non che la volontà umana possa imporsi a quella divina («sia fatta la tua volontà», diciamo nel «Padre Nostro», non la nostra), ma la volontà di Dio non è rigida e irremovibile, al contrario è duttile, flessibile, ospitale, e volentieri fa posto alla domanda dell’uomo: non perché deve farlo, ma perché può e vuole farlo. Dio non è una statua celeste né una sfinge impassibile. Perciò la preghiera sincera della fede, quella del cuore e non delle labbra soltanto, è capace, come diceva Lutero, di «smuovere la grazia di Dio». Diverse volte, nella Bibbia, si parla di un Dio che «si pente» del castigo che voleva infliggere a Israele e lo perdona: «Dio si pentì secondo la moltitudine delle sue benignità» (Salmo 106, 45). Anche Gesù ha cambiato idea a motivo della preghiera insistente della donna cananea (Marco 7, 24-30). Dio ascolta («l’Eterno è stato attento ed ha ascoltato» Malachia 3, 16) e risponde («in modi tremendi tu ci rispondi» Salmo 65, 5). Certo, ci sono tante preghiera non esaudite. Chi prega, forse da anni, per una certa cosa, e non l’ottiene, sa che cosa significa «preghiera non esaudita». Ci si aggrappa alla promessa, ma l’esaudimento non viene. È un’esperienza amara: si ha l’impressione di pregare invano. È vero però che preghiera non esaudita non vuol dire preghiera non ascoltata. E neppure preghiera senza risposta. Solo che la risposta può essere così diversa da quella che ci aspettavamo, che ci riesce difficile riconoscerla come risposta. È comunque un fatto che c’è anche un silenzio di Dio. Ma Kierkegaard, che ha molto riflettuto sulla preghiera, dice di Dio: «Tu parli anche quando taci».

III. Alla terza domanda non è difficile rispondere. Le preghiere dei cristiani sono abitualmente rivolte a Dio «nel nome di Gesù», e non direttamente a Gesù, per due ragioni. La prima è che quello è il modo di pregare insegnato da Gesù stesso ai suoi discepoli: «Quello che chiederete [al Padre] nel mio nome, lo farò, affinché il Padre sia glorificato nel Figlio» (Giovanni 14, 13; vedi anche 14, 14; 15, 16; 16, 23.24.26). È dunque Gesù che ci ha detto di rivolgerci non a lui, ma a Dio «nel suo nome», cioè per mezzo di lui; e questo noi facciamo. La seconda ragione è che Gesù stesso è, in questo tempo, dopo l’Ascensione, colui che «alla destra di Dio, intercede per noi» (Romani 8, 34; vedi anche Ebrei 7, 25; I Giovanni 2, 1): egli cioè, in quella posizione, la sua la nostra preghiera, che quindi giunge a Dio non solo «nel nome di Gesù», ma, per così dire, pronunciata da lui stesso. Detto questo, nulla vieta di rivolgerci in preghiera a Gesù stesso, direttamente, proprio perché è, accanto al Padre, colui che intercede per noi. L’ultima preghiera – che è anche la penultima parola – della Bibbia è un preghiera rivolta direttamente a lui: «Vieni, Signor Gesù!» (Apocalisse 22, 20).


tratto dalla rubrica: Dialoghi con Paolo Ricca del settimanale Riforma 
del 18 giugno 2010

www.riforma.it